Mica fesso, Martinez

Roberto Beccantini6 luglio 2018

A parlare di suicidio, il solito suicidio del Brasile, si rischia di sabotare i meriti del Belgio, che Martinez ha rimpinzato di muscoli e disposto all’italiana. Stava giocando benino, la squadra di Tite – palo di Thiago Silva in mischia e un po’ di polvere di stelle – ma al primo chiodo si è sgonfiata. L’autogol di Fernandinho ci porta all’assenza di Casemiro, lucchetto prezioso. Dettaglio che farà sorridere, dal momento che, di solito, si misura il Brasile con il metro di Neymar (così così), Coutinho (un disastro, tranne l’assist per Renato Gustavo), Gabriel Jesus (fumo), Firmino (da impiegare subito), Willian (in ribasso) e Douglas Costa (da impiegare prima).

Mica fesso, Martinez. Fuori Mertens e Carrasco, già sostituiti contro il Giappone, dentro Fellaini e Chabli. Non sono un patito di Fellaini, ma che partita: anche su Neymar, se era il caso.

Hazard è stato la bussola, sempre e comunque. Lukaku, largo, serviva per aprire varchi, stanare Miranda, allargare Fernandinho. Il raddoppio è venuto sul più contropiede dei contropiede, suggellato dalla pallottola fischiante di un De Bruyne non più gregario, non ancora mattatore. Faine contro polli.

Alla ripresa, Tite ha aggiustato l’assetto, inserito forze fresche e ordinato l’arrivano i nostri che nei film western spesso movimentano la trama ma non sempre, nel calcio, aggiustano il risultato. La sfida mi ha appassionato perché si è risolta nel confronto tra due scuole: lo stile brasiliano e lo stile italianista, illuminato, proprio agli sgoccioli, dalla paratona di Courtois su un destro pettinato di Neymar. A proposito del quale va ribadito che le nuotate con richiesta d’aiuto hanno sortito l’effetto di trasformare gli arbitri in bagnini molto (e giustamente) sospettosi.

Dimenticavo: la mia finale virtuale era Brasile-Argentina.

Gli episodi, i portieri

Roberto Beccantini6 luglio 2018

La Francia sarebbe stata favorita comunque, figuriamoci con l’Uruguay senza Cavani e con Muslera, uno dei tanti portieri-lotteria che stanno popolando la roulette russa del Mondiale. E così bleus due celeste zero.

Un quarto di nobiltà più sulla carta che sul campo, ma non si può sempre pretendere champagne o mate di qualità. Hanno vinto i più forti, hanno deciso gli episodi. Nel primo tempo, colpo di testa di Varane su punizione di Griezmann e gol (imparabile); colpo di testa di Caceres su punizione di Torreira e gran parata di Lloris. Nel secondo, papera di Muslera sul più innocuo dei dardi che Griezmann abbia mai scagliato e giù il sipario.

La stampella di Tabarez era una croce, non più uno scudo. Troppo grezzo, Bentancur, e troppo spaesato, Vecino, perché il minuscolo Torreira potesse tener botta ai Pogba, ai Kanté, ai Tolisso. E Suarez, orfano del Matador, più che il pistolero è stato costretto a fare la sponda, il suggeritore: per gli Stuani di turno.

Per vincere, la squadra di Deschamps non ha avuto bisogno d’inventarsi l’urlo di Munch. Ha presiditato i valichi, ha ridotto i rischi, ha imposto il suo fisico. E colpito con un’efficacia quasi italiana. Lo stesso Mbappé, che aveva asfaltato l’Argentina di Messi, si è preso un po’ di scena e perfino una sceneggiata, alla Neymar, a conferma che fra teatro e teatrino i confini rimangono vaghi, golosi.

Della Francia un cenno lo meritano Pavard e Hernandez: terzini che, come chioserebbe Bagnoli, fanno i terzini. L’Uruguay si fermò negli ottavi anche in Brasile. La Francia, in compenso, non arrivava in semifinale dal 2006. Adesso che il dato è tratto, non resta che tornare ai portieri. Lloris, Muslera. Li si trascura sempre. Anche perché, spesso, alla loro porta il «postino» non suona che una volta. Troppo poco per farci un film, ma abbastanza per farci la morale.

Da Boniperti a Cristiano

Roberto Beccantini4 luglio 2018

Nel giorno in cui Giampiero Boniperti compie 90 anni, si continua a parlare – sempre, e sempre di più – di Cristiano Ronaldo alla Juventus. La prima notizia è documentata e documentabile; la seconda non ancora. Mi viene in mente, tanto per legare il fatto al fattibile, quando proprio lui, Boniperti, volò a Buenos Aires per prendere Diego Maradona. Su dritta di Omar Sivori, alla vigilia della riapertura delle frontiere (estate 1980). Mancava solo l’annuncio e a «Tuttosport», dove lavoravo, lo aspettavamo da una telefonata all’altra. Le pagine erano già pronte, «flanate». Doveva essere uno scoop. Lo venne a sapere Enrico Heiman della «Gazzetta» e scoop non fu. E neppure orgasmo, visto che la Federazione argentina si irrigidì e bloccò Diego, bloccò tutti. Fino, almeno al mondiale successivo, nel 1982.

Giocatore, capitano, consigliere, presidente, amministratore delegato, presidente onorario: Boniperti è stato tutto. Su quanto ha vinto, e se avesse potuto vincere di più (in Europa, soprattutto), il dibattito rimane aperto. Negli anni Settanta, quando forgiò una delle Juventus più forti di sempre, la Juventus che fornì nove titolari (titolarissimi, diremmo oggi) alla Nazionale quarta in Argentina e sei, ma senza il k.o. di Bettega sarebbero stati sette, all’Italia prima in Spagna, le frontiere erano chiuse. Con gli Agnelli alle spalle, non era poi così difficile, e Boniperti l’ha sempre ammesso: «due mezzali come l’Avvocato e il Dottore sul mercato non si trovano».

Ha rubacchiato a Vince Lombardi guru del football americano, che secondo alcuni lo aveva sfilato ad altri, lo slogan che è diventato la filosofia aziendale: «Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta». Qualcuno l’ha preso fin troppo alla lettera (Massimiliano Allegri, dicono). Qualcun altro lo esecra sui social e ne gode in bagno. Auguri, presidente.